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Immagine del redattoreLorenzo Cornia

4) Le prassi giudiziarie nella determinazione dell'assegno di mantenimento

Aggiornamento: 15 mag 2021

Abstract: Le prassi più diffuse nei tribunali italiani prevedono metodi forfettari di determinazione degli assegni di mantenimento, basati su frazioni del reddito del coniuge onerato. Tali metodi non possono che condurre a risultati materialmente errati e gravemente dannosi per il coniuge onerato, che si troverà inesorabilmente costretto a versare più e più volte quanto già corrisposto in via diretta, con evidente indebito arricchimento dell'altro coniuge.


Nei contributi precedenti abbiamo visto che i tribunali italiani, per esigenze di semplificazione e celerità, sono soliti determinare l’assegno di mantenimento adottando come base di calcolo un dato spesso fuorviante ed errato, come è il reddito fiscale risultante dalla dichiarazione dei redditi; abbiamo anche visto che la giurisprudenza ha attribuito all’assegno di mantenimento una funzione sostanzialmente “redistributiva” che va anche oltre la funzione perequativa che la legge e la giurisprudenza, almeno nelle dichiarazioni di intento, vorrebbero attribuire a tale contributo; inoltre abbiamo iniziato ad approfondire il tema dell’incoerenza tra la funzione di contributo al mantenimento ordinario che viene asseritamente attribuita dai tribunali italiani all’assegno di mantenimento e gli importi che la prassi giudiziaria, nei fatti, è solita determinare.

Vediamo quindi come i tribunali italiani sono soliti determinare gli assegni di mantenimento, premettendo che salvo rare eccezioni non esistono tabelle ufficiali che consentano di verificare volta per volta i criteri concreti adottati dal giudice nella determinazione dell’assegno di mantenimento; nella maggior parte dei casi, i provvedimenti si limitano ad attribuire l’obbligo di versamento di una determinata cifra al coniuge non collocatario, senza chiarire come tale cifra sia stata determinata; è appena il caso di notare che una materia così delicata non dovrebbe essere soggetta a tanta aleatorietà (per non dire dell’arbitrarietà), poiché a seconda del Foro competente e del singolo giudice le prassi differiscono sensibilmente, ma purtroppo questa è la situazione attuale.

La disparità di trattamento a cui va incontro chiunque presenti ricorso per separazione giudiziale a un qualsiasi tribunale italiano è stata oggetto di esame, alcuni anni fa, da parte di Fiorella Buttiglione, già Consigliere presso la Corte d’Appello di Cagliari, che in uno studio approfondito sulle prassi in materia di determinazione degli assegni di mantenimento (Assegni per il coniuge e i figli. Quando e quanto?, in https://aiaf-avvocati.it/files/2011/11/FOCUS_01_BUTTIGLONE.pdf) riferiva di un’indagine effettuata dall’Associazione Nazionale Magistrati dalla quale emerse che, in modo sostanzialmente arbitrario, l’assegno di mantenimento, in mancanza di dati reddituali affidabili, poteva (e può tuttora) essere determinato, secondo l’opinione dei giudici interpellati, in misura variabile da 50 fino a 400 euro a figlio; nella prassi, poi è facile verificare che gli assegni possono essere anche sensibilmente più alti, anche in fase presidenziale, sede in cui il giudice determina l’assegno in modo sommario, non avendo ancora potuto iniziare la fase istruttoria dove i redditi dei coniugi dovrebbero essere accertati analiticamente.

La sensazione che emerge dalla lettura dell’indagine dell’ANM è di un vero e proprio caos deterministico che porta alla generazione di numeri del tutto casuali.

Come anticipato, non esistono, salvo rari casi, documenti di indirizzo ufficiali, il che ostacola sensibilmente il lavoro di qualsiasi interprete. Da un’indagine sommaria effettuata su Internet, tramite i social network su pagine specializzate in separazioni e divorzi, e a seguito di dialoghi con numerosi avvocati del settore, si può in via approssimativa affermare che l’orientamento prevalente sia quello definito dal Tribunale di Monza che, per primo, ha adottato le seguenti tabelle per dotare i propri magistrati di un indirizzo uniforme:

- in presenza di 1 figlio: assegno pari al 25% circa del reddito del coniuge obbligato

- in presenza di 2 figli: assegno pari a circa il 40% del reddito del coniuge obbligato

- in presenza di 3 figli: assegno pari al 50% circa del reddito del reddito del coniuge obbligato.

Tali importi poi possono essere ulteriormente rettificati qualora il coniuge collocatario sia anche beneficiario di un assegno di mantenimento per sé e qualora sia anche stata assegnata la casa coniugale.

Facendo una rapida ricerca on line si può leggere che anche il Tribunale di Palermo si è adeguato alle tabelle del Tribunale di Monza, mentre altri Tribunali parrebbero adottare criteri simili o che, per lo meno, conducono a risultati analoghi nella determinazione degli assegni.

Diversamente, il Tribunale di Firenze, unico in Italia, si sarebbe affidato al software Mocam, che produce risultati scientificamente più corretti.

Ancora una volta, va stigmatizzato un sistema che da un lato contraddice ogni principio di certezza del diritto, privando ogni cittadino intenzionato ad adire la Giustizia della possibilità di stimare in via preventiva il possibile esito di un processo di separazione giudiziale; dall’altro lato, a consuntivo, è evidente la compressione del diritto di difesa del cittadino, ove l’importo dell’assegno determinato dal giudice secondo la propria libera interpretazione non possa essere verificato in nessun modo oggettivo.

La determinazione del quantum tuttavia, non esaurisce l’argomento, perché quand’anche fosse possibile, districando gli orientamenti dei vari tribunali, identificare un indirizzo comune nella quantificazione dell’assegno, resterebbe ancora da definire quali spese vi siano incluse e ciò sotto un duplice aspetto.

Da un lato, infatti, come già osservato in precedenza, l’assegno di mantenimento è, o dovrebbe essere, destinato a garantire la sola copertura delle spese ordinarie, con funzione perequativa, e non comprenderebbe tutte le spese che normalmente vengono qualificate come “straordinarie”; anche in questa materia regna, purtroppo, una babele di definizioni, che inevitabilmente alimenta il contenzioso anziché deflazionarlo.

Così il genitore che si trovi obbligato a versare una determinata somma a seguito del deposito di un provvedimento giudiziario, non solo non è in grado di comprendere come tale somma sia stata determinata, all’interno di una forbice abitualmente molto ampia, ma è anche, almeno parzialmente, all’oscuro di quali spese stia effettivamente pagando con tale somma e di quali dovrebbero restare ancora a suo carico, una volta assolto l’obbligo di versamento dell’assegno. Questa incertezza è, nel diritto di famiglia, una delle tante fonti di contenzioso che potrebbero facilmente essere risolte con un intervento normativo o ministeriale e che invece languono da tempo non regolamentate.

Si riportano di seguito, ancora una volta a titolo esemplificativo, le linee guida di alcuni tribunali, oltre a quelle del Consiglio Nazionale Forense, più che altro per mostrare come l’esigenza di trovare finalmente chiarezza in un indirizzo univoco, trovi come risposta solo l’iniziativa dei singoli tribunali, nel silenzio colpevole dello Stato:


TRIBUNALE DI MILANO

TRIBUNALE DI ROMA

TRIBUNALE DI FIRENZE

LINEE GUIDA CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE


Ma come detto la questione non finisce qui, perché oltre alla definizione dei confini tra spese di mantenimento ordinario e spese di mantenimento straordinario è necessario risolvere anche il tema, tendenzialmente trascurato dalla giurisprudenza, dell’inclusione nel computo dell’assegno di mantenimento, delle spese sostenute in via diretta dal coniuge onerato del versamento dell’assegno, tanto più che la prassi dei tribunali di imporre al coniuge non collocatario il versamento di un assegno di mantenimento si inserisce in un filone interpretativo che insiste nel conformarsi alla normativa previgente, trascurando l’applicazione della Legge 54/2006, che avrebbe previsto in via meramente eventuale il versamento di un assegno di mantenimento. Nei provvedimenti dei tribunali, infatti, si leggono normalmente formule di rito del seguente tenore “nella determinazione dell’assegno si è tenuto conto dei rispettivi tempi di frequentazione e dell’assegnazione della casa coniugale”; tuttavia se il quantum dell’assegno viene determinato in misura pari a una percentuale del reddito del coniuge onerato, è evidente che tale importo non può tenere conto di quanto già sostenuto in via diretta dal coniuge non collocatario e che le statuizioni citate non sono altro che, appunto, vuote formule di rito.

L’esito di queste prassi giudiziarie è imporre di fatto al coniuge non collocatario (anche questa, figura non prevista dalla legge ed elaborata dalla giurisprudenza) tre categorie, tra loro sovrapponibili, di contributo al mantenimento della prole:

- Il mantenimento diretto durante i tempi di frequentazione;

- L’assegno di mantenimento per le spese ordinarie;

- Il contributo alle spese straordinarie.


Come vedremo meglio di seguito, dunque:

- la legge ha stabilito in capo ai coniugi un obbligo di partecipazione in misura proporzionale alle rispettive capacità economiche;

- la giurisprudenza ha elaborato il principio normativo attribuendovi una funzione perequativa nelle intenzioni, ma redistributiva nei fatti, poiché il fine dichiarato di molte pronunce è quello di equilibrare il tenore di vita e non solo di suddividere il costo di mantenimento in misura proporzionale ai redditi;

- la prassi dei tribunali ha determinato dei criteri che oggettivamente non possono perseguire né il fine perequativo né quello redistributivo, essendo basati su presupposti che non tengono conto né di un’esigenza né dell’altra.

Segue…


Lorenzo Cornia (dottore commercialista)


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